In primo vere is a short celebration of spring that I dedicate with great joy to my two young daughters. It all began when I played with them at home and we were singing an old nursery rhyme, that my Grandpa Dria taught me when I was a child.


Gianda Bulanda che porta la stanga
Gitta pulitta la marghelitta
Tùn liùn, Giuseppe curdùn
Pria buschetta ch'a batte laurìn
Chi sciorte feua o l'è pellegrin!


It's a sequence / succession of words without meaning but which have a familiar sound for Ligurian and Italian people: in its short proceeding there is in fact a mixture of dialectical expressions and words in pure Italian that together show an indefinite meaning / sense. In this piece my little daughters represent the true voice of spring with its characteristic sounds, tracing a bucolic atmosphere: this explains the choice of the title directly taken from Carmina Burana.
As it often happens in my pieces, the composition of this too gives priority to music than to words: in foreground I used Elena and Rosa's voices and as background there are some sounds set on different musical levels that directly come from nature (the noise of the woods, the sound of running water) and some fragments from Carmina Burana.
This piece shows a level structure, but circular at the same time as the petals of a daisy. And in fact it is just the word 'margherita' (daisy) that is the main topic of the musical context: the piece begins with the repetition of the nursery rhyme and as it goes on Rosa's voice is harmonized and transformed through groups of audio-oscillators connected with a pitch detector. It is as if her voice began to enter a parallel world where even language is subject to the modifications of the structure of the place in which it is plunged.
And it is in this universe that new sound elements appear; the voice of an other child (Elena, my elder daughter) is to be heard as a more mature presence. Almost at the end of the piece we can hear a sound that continually changes. At first it's difficult to understand its meaning, but then it slowly takes its identity: it's again Rosa's voice that through a granuling backwards process becomes understandable, till it's possible to hear the word 'marghelitta'.
This shows the clear intention to create a circular piece with a cyclic structure like seasons, day, night, as it had an interior beat.
This is the world described in In primo vere, a piece dedicated to my two little daughters that allowed its realisation by repeating the old nursery rhyme as only children can do. A lot of sensations emerge from this composition: a lot of interior messages that only electroacustic music with its various possibilities can express.
These are the reasons that make me happy to compose using this kind of music and therefore I'd like to thank Mr Riccardo Dapelo for the patience he has always had with me in these years of friendship, teaching and collaboration.

In Primo Vere - EMUFEST 2008 - Conservatorio di Santa Cecilia in Roma

Stasera non si recita a soggetto 

si fa qualche minuto di poesia 

solo due rime di sicuro effetto 

gettate lì sul tavolo e poi via

Stasera non si scrive la canzone 

capace di cambiare il nostro stato

che guarda un solo istante dal balcone 

e non fa un passo indietro nel passato

Stasera qui si viaggia a mezza costa

e la giornata sta scendendo a valle

io no, sicuro non lo faccio apposta 

ormai io non mi guardo più alle spalle

stavamo tutti dalla stessa parte 

leggendoci l'un l'altro questa vita 

aspettavamo sempre buone carte 

per chiudere in vittoria la partita

Mai niente dura sempre lo sappiamo 

guarda me, che ero partigiano

son morto prima di veder la luce 

piegato in due, falciato, rassegnato

Immaginato e mai compreso appieno 

Tu eri tutto quanto lo splendore

ma il mio sguardo non si distendeva 

e non venivo a patti col dolore.

Stamane ero diretto alla tua casa 

nel cuore avevo ciò che per me fu

dicevo ‘sta a vedere che con gli anni

la villa non mi riconosce più’ 

d’altronde cambian sempre gli indirizzi 

anche di luoghi certi, che vuoi farci 

forse li cambiam noi, son brutti vizi

e non riusciamo mai ad incontrarci 

cambian le carte per trovare la collina 

s’aggiornan senza più velocità

ti getti in strada – costi quel che costi -

ma non ritrovi più la tua città.

ancora pensi ‘ho una buona mira

e Milton forse tornerà in azione’ 

ma non è più un tuo posto familiare 

cerchi nei volti quelle tue persone 

hai alle spalle tutto il tuo passato 

ma prima non ci avevi fatto caso 

adesso che sei sceso hai ricordato

e piangi e corri come fa un evaso.

Non è un vero problema fare il pane 

usando solo ciò che t’è rimasto

piuttosto scansar auto in mezzo al traffico 

pensando a cosa t’hanno dato in pasto 

eppure questo tempo che ti schifa

in fondo un poco t’ha rappresentato 

si vive a tempo senza stare a tempo

e a tempo Milton tu non se mai stato.




Stasera

Questa storia non ha senso

come quasi sempre accade

Qualche volta si comprende

tante altre meno

Ora che il giorno finisce

e la luce cala al fondo

non ti importa di niente

e le tue mani non tremano più.

Ecco il sole si nasconde 

dietro queste rive

la pesante canta a valle

falcia gambe straniere

sei da solo con i tuoi re,

coi tuoi demoni e gli affanni

passano gli anni che sembrano ore

e non c’è più traccia di te

Questo tempo a tre t’invita

come un giorno sull’aia

lei ballava, lui contava i passi 

e tu chiudevi gli occhi

Nave senza timoniere,

ti consegnavi al destino:

"Un, due, tre se guarda verso me

domani la bacerò"

Questa storia ti dicevo

non ha nessun senso 

come la guerra che credi di fare

essa stessa non ne ha

Non c’eran zagare né gelsomini

solo vapori di stalla

Lo stesso afrore dei tuoi contadini

benedetti col vino di langa

Rauco chiama il magnano

nell'ovatta dei campi

il suo incedere stentato

batte a tempo col maglio

E adesso scende la notte

e svanisci fra le sue braccia

un colpo secco di tosse o uno sparo

e Milton non c'è già più.



Valzer di Beppe

Jack, tu lo sai,

se non ti spieghi subito 

Jack, tu lo sai

potrei saltarti addosso 

Fuori c'è nebbia

e ora dobbiamo scendere 

tastando il fondo

di questa ripa marcia.

“Mi han preso Giorgio 

sì, me l'hanno preso 

soffiato sotto il naso L'han portato giù

come un trofeo

tutti lo conoscevano 

più d'una volta era stato qui”

                    

Subito sopra

al ponte di Mabucco.

Hai fatto il militare anche tu, 

tu che hai schiacciato

la zolla della langa

tu che non chiudi

un occhio per dormire;

tu che ora biascichi 

in questa lingua sorda 

chissà se è tardi, 

chissà se starai male 

Fare uno scambio

è l'unica risorsa

in questo tempo

che sconti non ne fa

                    

Piove su Giorgio 

magari già cadavere, 

piove a dirotto

sulla verità

è un segno, un sogno 

tracciato con il gesso 

che questa pioggia 

ha cancellato già.

            

Han preso Giorgio

C'è ancora un altro mondo dietro un tetto 

oscuro e lucido

C'è solo un altro uomo

le mani lungo i fianchi

e muri bianchi lavati senza tregua,

da questa pioggia assurda

Ivan, tu cerca di capire ci sono già queste

finestre tutte chiuse

occhi che non dànno più risposte non lasciano spiragli

a un seme di speranza

l'ultimo giorno che saremo in guerra

lo so, andrò a cercarla a casa del dolore

con il respiro giusto e le parole 

piegate al mio destino su lettere d'amore

non cigola il cancello del giardino 

quasi fosse segnale di intruso poco accorto

non t'ho mai fatto un torto se non quello 

di confessare al foglio e non cantare al vento

Pazienta ancora cinque minuti,

Ivan pazienta ancora non devi metter fretta 

questo mio cuore picchia all'impazzata 

e un dolore sordo già lacera il mio petto

E adesso dimmi tu cosa farai

quando saprai la noia dei viali di Torino? 

Quando questa collina che mi nausea

sarà solo il fondale di un palco desolato?

Sono due gli autunni che tra me e il sole 

respingono lontano da noi la voglia di allegria

E' un cancro che consuma, è un male nero

un cielo come il piombo che schivo mentre corro

guarda, sono io che scappo e inseguo 

che spiano la mia arma chi posso essere stato? 

Mi son sentito vivo, e visto morto

lo dico senza riso, tu prova a immaginare.




Il Giardino

Crepitano brevi le foglie gialle sotto le mie scarpe nuove
una vecchia con una storia e senza nome, mi guarda dal balcone
mani bianche come la luna, c'era Fulvia con cui parlare
occhi belli, profondi e sinceri, solo per me.
Oggi potrebbe essere il giorno perfetto  per chiudere gli occhi su questo mondo
e francamente spero che per me si tratti di cesura repentina
perchè fatico a pensare il dolore come una chiave,
la sola che apra la stanza della salvezza e del perdono
Perdono per tutti i pensieri che affollano le nostre giornate
di funamboli perennemente in bilico tra la luce e la notte
perchè quando si fa sera, anche l'anima prende il colore
dei fiori che non vogliono sbocciare, del male a cui non si dà un nome.
Perché la vita è la nostra battaglia, inebriante nella prima giovinezza
luce bianca, bandiera che saluta il giorno o brace nel cielo che s'incendia 
è diafana purezza che s'increspa, onda del sasso gettato nello stagno 
sentore dolce e agro nel rubare un battito di cuore accelerato
E' odore assurdo e antico dei cassetti di un vecchio cantonale di soffitta 
vertigine che suscita un'immagine, sacchetti di lavanda e pezzi di sapone
le pagine ingiallite di un giornale, storie che guatano da un fondo di valigia 
un fiocco di raso con la frangia, ricordo di una Prima Comunione
Santini, ulivo benedetto, poveri versi, mutate già in preghiera(!) 
che io non so più dir come un bambino inginocchiato, i gomiti sul letto
più facile è soccombere falciato, come ogni sera da tempo a questa parte 
con le orazioni dette da ubriaco, un rito breve per invocare il sonno.


Il giorno più bello

Posso scendere a valle portando soltanto con me

il sorriso di chi s'assicura soltanto a sé stesso

un sorriso che s'alza e s'abbassa come il vento che

fa vibrare nel cielo le tele degli ombrelloni di Alassio

                    

Questo posto beffardo ora occupa i miei desideri

io vorrei che mai fosse esistito o distrutto per sempre

è il Fantasma dell'Opera che non sa niente di me

sta facendo di ghiaccio il mio sangue e non mi consola

                    

Il mio passo dev'esser deciso ché l'amore è rimasto

e mi aspetta per chiudere il conto quasi a dire “sei stato” 

e non so se sia male combattere senza ragione

o sia peggio partire e saper di non essere andati

                    

E così adesso son prigioniero del mio stesso nome 

non mi giova sapere di Fulvia e di Giorgio perchè 

qui c'è il mio Paradiso Perduto tra faggi e castagni 

non è luogo d'incanto ma stanza per dura condanna

                    

Ecco giungo ora al bosco, al mio posto per non ritornare 

alla villa, alla stanza se adesso non c'è più chi ascolta 

senza fiori, né soste o discorsi al mio funerale

non è più una questione privata ma adesso a chi importa?

Adesso a chi importa?

A nessuno più importa.




Non c'è incanto

Scuotiti, Milton!

Quande O L'aiva Averto I Euggi

O treno o camminava into mezo do bosco.
Quante öte o l'aiva piggiou pe anâ zu à Zena, à scheua, i amixi e e figge che ean coscì differente da quelle di seu bricchi. 
Lê, à ògni moddo, o preferiva e primme, ciù saverghe,  seguo, ma into mæximo tempo ciù cade, pronte, viaxe.
O l'aveiva donca giandonou inte seu giornæ, squæxi de longo in çerca de unn'asseguaçion e o l'aiva inteiso che solo i òmmi - megio che e atre forme de vitta - poeivan dâghela inta megio mainea.
L'ea veo che inta tante de ste gente se poeiva treuvâ o piaxei da conoscensa ma succedeiva delongo che inte pochiscime se saieiva posciuo preuvâ o calô do scompartî sentimenti.
O l'aiva pensou tanto che sti ommi prinçipiavan da-e cöse do sentî de tutti i giorni e depoî se sponciavan ciù avanti di termi do spaçio e do tempo.
Solo alantô, quande o locomotô o l'aveiva passou a staçion de Trensasco e o treno o l'incomensava à chinâ ronsou in sciô binäio zu pe-a discesa rabita do Peado, solo alantô o veddeiva seu nonno, o Dria, machinista da ferrovia Zena-Casella, attento in cabina a-o banco de maneuvra.

O treno o camminava

O s'ea innamoou do tiatro quande o l'ea ciù zoeno, a saià stæta a meitæ di anni Ottanta.
A-o Politeama Zeneise gh'ea un spettacolo do Mastelloni.
O pensava de sovente à quella seiaña, uña de tante, de quelle ch'o scappava da-i seu monti za troppo scui e o vegniva à çercâ compagnia – in sciâ fin, mai attreuvâ – de luxe da çittæ.
Fòscia alantô o se confondeiva ò, ciù façilmente, o l'arregordava mâ, ma gh'ea parsciuo che o Mastelloni o fesse o bagno mezo nuo inte unna vasca in sciô parco.
Dapeu o se sciugava, o vegniva in sciô proscenio e o cantava unna canson.
À quello ponto lê o s'ea innamoou do coraggio de quell'òmmo e o l'aveiva capio che into tiatro, into mezo de tanta finçion, in sciâ fin se ghe poeiva çercâ e treuvâ a veitæ.
Alantô o l'aiva visto a-a lonxi:
O tiatro o l'é o posto donde se mettan à nuo no solo i còrpi di òmmi ma ascì e soviatutto i lô sentimenti, a poia, l'agrecco, e pascioin.
Un ommo o peu attrovâghe pròpio quello ch'o veu ëse anche se, pe ësilo in davei, o l'à da pagâ un prexo ertiscimo.
D'intanto ch'o pensava à ste raxoin, o s'avansava da-o brasso da seu pôtroña e o l'aggueitava inta seu vitta e ascì inte quella di seu scimili…
Ghe voeiva do tempo perché o s'accorzesse do succede de cöse. 
Ghe voeiva paçiensa, umiltæ e coraggio perché lê o se contesse a veitæ, ascì quande sta veitæ a ghe portava un dô.
Se gh'ea unna cösa che no l'arriesciva propio à perdonâse a l'ea stæta delongo a distraçion, soviatutto quande questa seu mancansa a portava cattio stâ à chi o ghe voeiva ben.
E uña de cöse ch'ô mäveggiava delongo ean quelli òmmi e quelle donne che, da l'osservaçion continua de gente, treuvavan l'inspiraçion per fâ cöse mäveggiose.

O tiatro

Gh’ea i erboi, e ramme tutte pæge: verde de stæ, nue d’inverno, ma delongo e mæxime.
O ê veddeiva, tutti i giorni, da-o vreddo, comme inte unna televixion picciña..
E traversiñe se cacciavan sotta a-o treno uña apreuvo à l’atra e inti meixi de stæ, quande o sô o piccava in scê prie da ferrovia, e stanghe de colisse luxivan e, d’ògni tanto, l’imbarlugavan.
A machina a pattansciava comme unna bestia vegia e lê o l’imboccava delongo: un lentiscimo pasto neigro ch’o se scangiava in ciolle, luxe, fô ma, in sce tutto, potensa.
O scompartiva a cabiña co-o Pitanghera, un bellinon ignorante che, scicomme o l’ea lê o machinista, o refuava de deuviâ o boei pe cacciâ o carbon inta cädea.
Quand’ean inte l’officiña do depòxito à Casella, o piccava co-a massetta in sce l’anchise e o cantava:

Pitanghera, Pitanghera, Pitanghera in camon
O Pasqualin o Pasqualin prepara del vin bon

A-o mascimo o ghe diva: “Genovese, butta carbone!”  ò, quande o l’aiva famme: “Genovese, dammi il tuo pranzo!”
Lê, o zeneise, quello ch'o traversava o Screivia in sciâ scheña de un mû, o l'ea o feughista, quello ch’o l’aiva da fâ i conti con quello cado diffiçile da sopportâ: pratticamente l’unico veo artista.
O s’ea invexendou da ferrovia, de machine à vapô, de l’ödô di cari.
Quello catrammo spesso, respiou fiña in sciô fondo di pormoin o ghe impiva e naixe e o l'imbriægava.
E dapeu gh’ea i retræti…
O seu mondo o l’ea fæto de caize, quella pua sottî, tarco neigro che sensa pietæ o tappava tutto: da-a ciminea da machina, tutto zu fin a-i beuggin da seu pelle.
A-a seia, quand'o tornava à cà, o paiva un paggiasso visto inte un negativo fotografico.
A seu cà a no l’aiva unna stançia da bagno e coscì o l'ea avviou à lavâse in coxiña, con un scistema de brocche e baçî che no voeivan saveine de mantegnî l’ægua pöcassæ tiepida.
Ancheu, ch'o vive inte un bello appartamento o no sa renonçiâ a-o piaxei de frettâse con unna pessa sgreuzza.

Un corpo secco, ò fòscia o reciammo de unna bestia sarvæga o rimbombava inta valle, zu pe-i scianchi de colliñe aspie, donde o l'ea nasciuo in scilensio a-i 4 de zenâ do 1904.

O l’ea o scigoâ da Borsig, unna machina à vapô. O se n’ea innamoou un muggio d’anni avanti, quande ancon o no l'avieiva dæto un citto in sciô fæto che un bello dì o saieiva vegnuo un machinista lê ascì.
Co-a fòrsa de l’amô ch'o sentiva, o metteiva inte seu moen sto regòrdo.
Ecco, oua se ïsa o vento...

Gh'ea i erboi

Cao o mæ amô,
dimmo che, tutto nell'insieme, staggo ben.
Me sento fòrte e arreiscio con ste quattro poule, sensa manco o giamin de transcrivile, à levâ de mezo sta meixiña che, comme dixan, a dovieiva fâme addormî.
Ma sto chì o l'é un lou mai finio, perché no gh'é de sostansa.
Faiò comme o Segnô do Ninte che, sensa manie de grandessa, o s'é serrou into leugo à ricreaçion e o no l'é ciù sciortio.
E quande s'ammerma o fô in sciô fondo, e voxe ciù basse vëgnan importantiscime. 
O ciù de vòtte sta cösa a succede de neutte ò inti boschi fæti de erboi ch'an e feugge sciòcche e scilençiose e che no parpellan manco quande o vento o ghe fa o bollitigo. 
Quella lì a dovieiva ëse l'oa da poia, carmâ da-o borboggio do giorno.
E, d'invece - mia un pö! - e cöse van a-a reversa:
ceuve tutte e poule taxue, e poule che reciòccan insemme a-o tambuo do nòstro cheu.
E l'é alantô che sento unna nòtta bassa:
uuunnn
O l'é o son di mæ nervi.
Quande me tocchià, ò speransa de bollâme into Mâ do Ninte sensa savei ch'a segge finia. 
No veuggio fâ a conoscensa do Scilençio e avei a cosciensa de l'existensa do tempo.
uuunnn…

Pensite un pittin, amô,
quante a l'é sorda, staneutte, a neutte!
A l'é unna bocconâ de euio neigro e fatto.
A se pòrta apreuvo i soin ciù æguæ, quelli che se distilla de giorno e che dapeu se strasciñan inte un straggio ösciuo. 
A neutte a l'avvarda i regòrdi: bestia cada a no n'imprende o senso.
Arresta un veuo, unna mancansa, un deserto.
Porriemo fâne à meno?
Ò da regolâ o respio.
A testa a s'appösa in sce l'oegê.

E l'ommo ch'o dergheugge bellinate inta negia do seunno, donde o l'é?
O l’é delongo fermo, in sciô primmo scain.

A lettia

Quand’o se destendeiva in sce quello còrpo menuo, piccin ma co-e forme in giusta armonia con tutta a Creaçion ò quande o sentiva sotta a-e die, drento a-e parme de moen ò in sciâ bocca quello velluo cado da seu natua, quello pòsto donde s'arriva e no gh'é poule pe contâlo, o descreuviva quello ben de Dio pe mangiâ, sentîne o profummo de fræxa, de sarmaxo, de bestia sarvæga da addomestegâ.
O â çercava in sce quello letto derfæto comme a seu añima strañia,  comme quelli soin sciortî da-o caxo, da-o lambicco do fô.
E tutto quello gödî di seu sensi, in sciâ fin, o l'aiva da fâ i conti con o Mâ.
Crava maledetta, segnô de giornæ de sen piggiæ in pegno! 
O diao fòscia o s'ea assettou in sciô seu letto perché, da-a stançia da arente, se sentiva ödô de sorfano.

A neutte 
A dergheugge
O remescello di seunni piccin
mai asseunnæ
e a I'infia
in sciâ resta,
Margaitin sensa consistensa.
Bolacco de pexe tacchigna,
sta neutte!
A no scangia o tempo
a-i mæ penscëi.

…e l'ea belliscimo sentî inte quella neutte o seu respiâ, quell'anscimo de piaxei à tempo co-e seu caesse.

Quande o se destendeiva

Bambòcce sensa i euggi

Genovacolor

E cöse che no ti veu

O scrive muxica / Scrive musica

https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Besagno

http://www.besagno.com

Paolo Besagno (Genova, 1964)

Studia Composizione e Musica Elettronica con il M° Riccardo Dapelo. E’ proprio la musica elettronica a caratterizzarne la produzione anche se da più di venticinque anni canta nel ruolo di contralto nella formazione di trallalero genovese “I Giovani Canterini di Sant’Olcese”

Nel 1996 vince il Premio Città di Recanati – Nuove tendenze della canzone d’Autore, con il brano “O trallalero canson de ‘na vitta” per squadra di canto popolare genovese. Nel 2009 il suo brano “In primo vere” per voci di bimbe e nastro magnetico viene selezionato ed eseguito a Emufest presso l’Accademia di Santa Cecilia in Roma. Nel 2015 il suo brano “Largo IV” per nastro magnetico e impianto di diffusione a 24 canali viene eseguito alla rassegna “Suoni Inauditi” presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Pietro Mascagni” di Livorno. Nel 2015 fonda con l’amico libero organizzatore di suoni Rinaldo Marti il consort vocale “EthnoGenova”, collaborando alla realizzazione di un progetto per l’ascolto interattivo/immersivo attraverso l’utilizzo del software MAX. Nel 2018 Il suo brano “Witte Vlam”, viene selezionato ed eseguito al festival Rimusicazioni di Bolzano.



Paolo Besagno

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