Nei giorni scorsi il comitato Opzione Zero, Re:Common e la rete europea Counter Balance hanno presentato un dettagliato memorandum all'Olaf, l'organo ispettivo dell'Unione europea, chiedendo che indaghi sul prestito di ben 350 milioni di euro dalla Banca europea per gli investimenti alla compagnia pubblica italiana CAV. Il prestito è stato erogato  tramite l'italiana Cassa depositi e Prestiti.
Partecipata dall'Anas e dalla regione Veneto, la CAV è responsabile della gestione e della costruzione delle opere complementari del discusso Passante di Mestre. La CAV è stata creata nel 2008, quando il mega progetto era già quasi finito, e si è fatta carico di un debito di oltre 1,3 miliardi. Il prestito dovrebbe aiutare ad alleggerire tale fardello.
Ma c'è un dettaglio che non va assolutamente trascurato. Nel 2011, il Passante è stato oggetto di un dettagliato rapporto della Corte dei Conti, che aveva sollevato forti dubbi su vari aspetti della costruzione e della gestione dell'opera, sottolineando come i mancati controlli di supervisione avessero causato un aumento ingiustificato dei costi. La Corte ha messo nero su bianco la concreta possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata nella concessione dei subappalti. Non a caso alcune delle società maggiormente coinvolte nel Passante sono oggetto di un'indagine della magistratura di Venezia, che nel febbraio 2013 ha portato all'arresto di quattro persone, tra le quali Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani SpA. Lo scorso ottobre, l'amministratore delegato di una delle società del consorzio, FIP Industriale, è stato arrestato dalle autorità anti-mafia di Catania con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa legato alla costruzione della tangenziale di Caltagirone in Sicilia. Insomma, intorno al passante aleggia più di un sospetto di attività illecite.
Eppure la Banca europea per gli investimenti è andata avanti per la sua strada, trasferendo il denaro lo scorso aprile.
“Innumerevoli sono state le occasioni in cui comitati e gruppi di azione civile impegnati sul territorio hanno denunciato apertamente il sistema politico-affaristico instaurato dai potentati che da vent’anni governano la Regione del Veneto” ha dichiarato Lisa Causin di Opzione Zero”. Opacità nelle procedure, negli affidamenti di appalti, nella gestione delle opere pubbliche e delle risorse economiche, nell’utilizzo forzato di strumenti tecnico-legislativi emergenziali e piegati a logiche tutt’altro che legittime” ha aggiunto la Cusin.
“ Da un paio d’anni anche le indagini della Magistratura stanno dimostrando quanto denunciato dai cittadini” sostiene Rebecca Rovoletto di Opzione Zero. “Il 'sistema veneto' è strutturalmente corrotto e il caso del Passante di Mestre e della gestione CAV ne è l'emblema. È tempo che gli organi di controllo, sollecitati dalla società civile, si rendano responsabili nelle loro funzioni di garanti della legalità e del corretto e trasparente utilizzo del denaro pubblico” ha concluso la Rovoletto.


RECOMMON STORIES - PASSANTE DI MESTRE

Contadini e pastori del nord-est del Senegal stanno visitando vari paesi europei per chiedere la cancellazione di un progetto di accaparramento delle terre che mette a rischio l'esistenza e i mezzi di sostentamento di circa 9mila persone. La Senhuile SA, controllata per il 51 per cento dall'italiana Tampieri Financial Group e al 49 per cento dalla società senegalese Senethanol, ha affittato ben 20mila ettari della riserva di Ndiael, dove sorgono una quarantina di villaggi abitati da decenni da comunità indigene. I residenti lamentano impatti molto pesanti sul loro stile di vita causati dal progetto, che impedisce l'accesso ai pascoli, alle fonti idriche e alle altre risorse necessarie per la loro sussistenza, di fatto costringendoli ad abbandonare le loro abitazioni. 


Senegal- RECOMMON STORIES - 27 febbraio 2014

Il Keystone XL pipeline è un oleodotto gigantesco disegnato per trasportare 830mila barili di petrolio al giorno dal Canada alle raffinerie del Texas, sulla costa occidentale degli Usa. Ormai da anni si dibatte sulla fattibilità o meno del progetto. Con posizioni, come si può immaginare, molto discordanti tra loro. Da una parte ci sono le comunità locali e le organizzazioni ambientaliste, nettamente contrarie a un'opera che pare destinata ad avere nefaste conseguenze ambientali su buona parte dei quasi 2mila chilometri del suo percorso; dall'altra una larga fetta del partito Repubblicano e l'intera lobby petrolifera statunitense. In mezzo c'è l'amministrazione Obama, chiamata a prendere una decisione definitiva sull'oleodotto dopo una prima serie di rinvii.

Questi ultimi hanno esultato quando, a fine gennaio, un rapporto del Dipartimento di Stato ha dichiarato che non sussistono obiezioni alla realizzazione del lungo serpentone. I contestatori non ci stanno e hanno intenzione di provarle tutte per fermare l'inizio dei lavori. In Nebraska un nutrito gruppo di contadini e piccoli proprietari terrieri si stanno organizzando per candidarsi alle elezioni del prossimo mese di novembre per occupare posti di rilievo nel Nebraska Public Power District. Ovvero l'ente che gestirà in maniera diretta le centrali necessarie su una parte del tragitto della pipeline che attraversa proprio lo Stato nel cuore degli Usa. Nel frattempo varie organizzazioni fanno sapere che sono ben 75mila gli attivisti pronti ad atti di disobbedienza civile contro il Keystone XL qualora Barack Obama lo dovesse approvare. In teoria il presidente si può prendere fino a 90 giorni dalla presentazione del rapporto del Dipartimento di Stato per decidere. Ma ha già fatto sapere che i tempi saranno più rapidi. Difficile che arrivi una risposta negativa, anche se ulteriori contrattempi potrebbero spuntar fuori a fine marzo, quando una corte del Nebraska è chiamata a esprimersi sulla legittimità di una normativa locale che di fatto permette la costruzione dell'oleodotto. Quasi certo che, comunque vada il pronunciamento, sarà fatto appello alla Corte Suprema statale. 

Nonostante i cambiamenti apportati al progetto negli ultimi mesi, l'oleodotto attraverserà lo stesso le Nebraska Sandhills, area di grande pregio ambientale e quindi a forte rischio. Ma un ulteriore problema è a monte, ossia nel petrolio che viene prodotto in Canada tramite le sabbie bituminose di cui è ricco il sottosuolo di una larga fetta del Paese, in particolare la regione dell'Alberta. I nativi americani, fortemente impattati dalla lavorazione delle cosiddette tar sands – basta vedere le foto del martoriato territorio dell'Alberta per rendersene conto – hanno fatto fronte comune con le comunità indigene abitanti negli Usa e ribadiscono un no netto e definitivo all'operazione. Ora la palla passa alla Casa Bianca. Vedremo se la voglia di differenziare le fonti energetiche – importando meno petrolio da Venezuela e Medio Oriente – avrà la meglio sulla tutela ambientale. 



Keystone XL RECOMMON STORIES 6 marzo 2014

“Dobbiamo costruire altre mega dighe?”. Questo è il titolo di un dettagliatissimo studio appena reso pubblico da un gruppo di ricercatori della Oxford University. Una domanda a cui gli esperti di uno dei più prestigiosi atenei del pianeta danno una risposta secca quanto definitiva: no. Il motivo è presto detto: oltre agli evidenti impatti sociali e ambientali, che hanno prodotto anni di proteste e opposizioni da parte delle comunità locali, costruire grandi sbarramenti sui fiumi di tutto il mondo non conviene  dal punto di vista economico. Costano troppo e rendono poco.

Nel rapporto, infatti, si prende in esame l'efficacia dell'operato di 245 dighe realizzate fra il 1934 e il 2007 in 65 stati. Tre quarti delle opere passate dagli studiosi sotto la lente d'ingrandimento hanno sforato le previsioni di spesa in media del 96 per cento. Un record negativo assoluto per tutto il settore infrastrutturale, impianti nucleari esclusi (per questi ultimi si arriva a un impressionante 207 per cento). Proprio questo record così poco auspicabile spesso ha fatto schizzare alle stelle il debito dei paesi del Sud del mondo. Prendiamo il caso della diga di Tarbela, sorta in Pakistan negli anni Settanta. Il fatto che i costi siano lievitati in maniera considerevole ha determinato un incremento del debito del paese asiatico, che fra il 1968 e il 1984 si è innalzato del 23 per cento. Ancora oggi il Pakistan sta pagando per un'opera come Tarbela, da cui ha ricevuto benefici relativi. Per non parlare della centrale idroelettrica di Itaipù, al confine tra Brasile e Uruguay, per la quale il budget iniziale ha fatto registrare un'impennata del 240 per cento.  

Inoltre per metter su una diga ci vogliono in media 8,6 anni. Oltre 2 anni in più di quanto posto in preventivo. Troppi, specialmente per le realtà più povere, dove il contesto economico è spesso in rapido mutamento a causa degli alti tassi di inflazione e di monete molto instabili. Il caso dei paesi africani è del tutto calzante. Eppure proprio nel Continente Nero, per la precisione nella Repubblica Democratica del Congo, si intende dar vita alla colossale diga di Grand Inga. Costo stimato, 100 miliardi di dollari. O giù di lì. 

Purtroppo Grand Inga e tutt'altro che un'eccezione. Nel cuore dell'Amazzonia brasiliana il progetto di Belo Monte, tra i più avversati di tutto il globo, è la dimostrazione che non si ha nessuna intenzione di imparare dagli errori del passato, sebbene siano evidenti e ben documentati. Anche per Belo monte si era stabilito che il tetto di spesa fosse intorno ai 14 miliardi di euro. Adesso siamo già arrivati a oltre 27.    

La soluzione per evitare altri scempi ambientali ed economici? Per gli esperti c'è, eccome. Basta mettere da parte le grandi dighe – che invece continuano a ricevere il sostegno di varie istituzioni internazionali, Banca mondiale in primis – e affidarsi a progetti su piccola scala e a bassissimo impatto. Ma soprattutto a costi contenuti.   


RECOMMON STORIES 20 marzo 2014 - Dighe

Tre giornate di dibattiti e incontri, mercato contadino e delle autoproduzioni. Ma anche animazione, musica, informazione e socialità, per ridare centralità ai bisogni delle persone.

È questo in estrema sintesi il nutrito programma dell'incontro nazionale che si terrà a Roma, al Forte Prenestino venerdì e sabato e a piazza San Giovanni la domenica, della rete nazionale di Genuino Clandestino. Una rete appunto di comunità in lotta per l'autodeterminazione alimentare e che difende la Terra con fatica, sudore e passione.

Recommon stories - Genuino clandestino - maggio 2014

Re:Common e A Sud, in collaborazione con la Rete Stop Enel e il teatro Valle Occupato, giovedì 22 maggio promuovono una serata di testimonianze video sulle conseguenze negative delle attività dell’Enel in Italia e in altre località del Pianeta.

L'altra faccia di Enel - RECOMMON STORIES

Dall’altra parte del mondo, per la precisione in Papua Nuova Guinea, si sta scrivendo l’ennesimo capitolo sulle malefatte delle grandi compagnie petrolifere nei confronti delle popolazioni locali.

Papua Nuova Guinea - RECOMMON STORIES

Si chiama “Licenza di distruggere”. È la nuova pubblicazione lanciata da Re:Common in concomitanza con la conferenza internazionale tenutasi nello zoo di Londra sul tema del biodiversity offsetting, ovvero i cosiddetti progetti di compensazione per la biodiversità. Nello studio di Re:Common sono evidenziati vari casi – in Europa la centrale nucleare di Hinckley Point (Regno Unito), il progetto di aeroporto di Notre Dame de Landes (Francia) e le miniere di Rosia Montana (Romania), più altri fuori dal Vecchio Continente.

Biodiversity offsetting - RECOMMON STORIES - 5 giugno 2014

La notizia è di quelle che fanno clamore e riscaldano i cuori: il Comitato dei Ministri, la più alta autorità amministrativa del Cile, ha bocciato la valutazione di impatto ambientale delle cinque dighe che l’italiana Enel voleva costruire in Patagonia.

Dopo sei anni di proteste locali e campagne internazionali che hanno visto impegnate organizzazioni cilene e italiane, il progetto idroelettrico del consorzio HidroÁysen guidato da Endesa, controllata Enel, esce dalle priorità del paese sudamericano e lo fa in malo modo. “HidroÁysen è un cattivo progetto e non siamo obbligati a finanziare cattivi progetti”, ha dichiarato  il ministro dell’Ambiente Pablo Badenier pochi minuti dopo l’annuncio pubblico.

Del resto, la neo presidente Michelle Bachelet lo aveva ripetuto più volte in campagna elettorale che i mega sbarramenti in Patagonia non si sarebbero fatti. Ha mantenuto la promessa, nonostante all'epoca del suo primo governo, fra il 2006 e il 2010, si fosse detta favorevole all’opera.

In totale le dighe sarebbero dovute essere cinque. Tre avrebbero imbrigliato le acque del fiume Pascua, mentre altre due erano previste sul fiume Baker, con i suoi 170 chilometri uno dei più lunghi della Patagonia cilena.

L'enorme quantità di energia prodotta, 2.750 megawatt, sarebbe servita ad alimentare le miniere nel nord del Paese e avrebbe comportato la realizzazione di una linea di trasmissione lunga 2.500 km e composta da 6mila piloni alti 70 metri che avrebbero attraversato otto regioni, 64 comuni, tre parchi nazionali e 12 aree protette.  

Gli impatti avrebbero colpito uno dei pochi paradisi rimasti sul pianeta, mettendo in serio pericolo la biodiversità della Patagonia e inondando 5.900 ettari di terra. 

La decisione del governo Bachelet rappresenta una grande vittoria per i movimenti sociali che si sono battuti contro la grande opera. La campagna Patagonia sin Represas, sostenuta anche in Italia da un numero molto ampio di associazioni riunite nella rete Patagonia senza Dighe, ha denunciato per anni le irregolarità del progetto e gli impatti devastanti che avrebbe comportato.



Patagonia senza dighe - Recommon stories 19 giugno

Traccia audio integrale del reading "GODIImenti, come inceppare la grande opera e vivere felici" che è andato in scena il 13 settembre 2014 a Melendugno (Le), prodotto e ideato da Re:Common. Voci e rumori, Wu Ming 2, suoni e chitarre, Egle Sommacal, testi collettivi dei comitati Spinta dal Bass – No Tav, reAzione, Comitato No Tap, No Rigassificatore Offshore, Monte Libero, Opzione Zero e Presidio Europa – No Tav, tutti impegnati contro alcune delle Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte (GODII) che devastano, impoveriscono e opprimono il territorio e la democrazia italiana..

ReCommon